martedì 24 dicembre 2013

Come Brezza


Le vele cadono inerti. L’aria afosa, l’orizzonte nascosto dalla foschia.
La barca offre il fianco all’onda e rolla sonnacchiosa.
Il sole picchia, il tempo si ferma. Secondi diventano minuti. Minuti, ore. Ore, giorni.
La noia. La Bonaccia.
L’assenza di vento sulla terra ferma è vista come una cosa positiva, ma in mare…. Bonaccia.
La barca, presa nella sua morsa, è incapace di reagire, di interagire con l’elemento che la circonda. Come i pensieri cupi o un malevolo ricordo, l’onda morta di una tempesta lontana la raggiunge e il rollio si fa impertinente. La vita a bordo impossibile. In nessun’altra situazione la barca è in balia dei capricci del tempo, nessuna fuga è possibile. La corrente ti porta dove vuole, nessuna scelta è possibile.
Ma, come ogni cosa, anche la bonaccia deve finire.
Una brezza leggera sale dal mare. Le vele riacquistano la forma.
Forma che si esprime nel movimento.
La rotta è ripresa.
L’aria si fa limpida. L’orizzonte si definisce. Il tempo, la vita cominciano a scorrere di nuovo. I pensieri e i ricordi, l’onda, l’ordine è ristabilito.

E ora?
Ora il vento si fa impetuoso. Come un musicista, passa veloce tra il sartiame che vibra.
Corde di un magico strumento.
Le vele sbattono e l’attrezzatura risuona sotto lo sforzo.
Per trattenere la sua furia, per contenere il suo impeto.
Corre veloce la barca nell’onda. Schiuma e spruzzi. Musica.
Musica drammatica, narra del pericolo che ti precipita addosso.
Freddo. Acqua. Nuvole plumbee che corrono basse.
È la vita. È la tempesta.
Eppure nella tempesta la barca non è inerte.
La tempesta va affrontata, l’onda cavalcata.
Il vento ti porta lontano. Sempre avanti. Il passato cerca di raggiungerti, ma tu sei più veloce.
La tempesta non ti è nemica.
Nulla ti cela. Nessuna menzogna vi si nasconde.
La sua forza… Il suo grande pericolo.
Ma come ogni cosa, anch’essa deve finire.
E allora il vento cala, la rabbia si placa. Il mare schiumoso riacquista compostezza. L’onda perde la sua violenza.
Al suo posto, una brezza leggera. Le vele riacquistano la forma.
Forma che si esprime nel movimento.
La rotta è ripresa.
L’aria si fa limpida. L’orizzonte si definisce. Il tempo, la vita cominciano a scorrere di nuovo alla giusta velocità. I pensieri e i ricordi, il passato, l’ordine è ristabilito.

E ora?
Ora la brezza è mia amica, la mia compagna, il mio amore.
Tu sei la mia brezza, Justine.

venerdì 13 dicembre 2013

Immagina (L’inverno è passato)


Immagina.
Immagina un uomo. Vestito blu, camicia bianca, cravatta azzurra.
Immagina una macchina fotografica. L’occhio sinistro si chiude, il destro inquadra il soggetto.
Immagina una ragazza. Abito lungo, di raso. Occhi tristi. Con la mano asciuga la lacrima che scorre sulla sua guancia. Capelli neri, lunghi. Le cadono sulla spalla. Lasciano scoperto un orecchio. Un orecchino d’oro. Pendente.
Immagina un cane che corre sulla spiaggia. Insegue le onde che frangono. Abbaia alla risacca. Nero.
Immagina un tramonto. Le nubi, basse all’orizzonte, portano la tempesta. Il cielo, viola.
Immagina tutto questo ed altro ancora…
Una casa laggiù sullo sfondo. Tra le dune di quella lunga spiaggia oceanica. Dal comignolo un filo di fumo. Una tazza di the si scalda sulla stufa a legna.
L’inverno è passato.
E ancora: una coppia che passeggia.
Fianco a fianco camminano, le braccia strette ai loro corpi. I cuori battono all’unisono. Gli occhi guardano lontano. Vedono una barca che sfida l’oceano.
Le bianche vele al vento, il timoniere attento. La notte sarà lunga e ancora molte miglia lo separano dal porto. In cambusa la sua donna prepara del caffè bollente. Canticchia una canzone.
Ci riesci? Riesci a immaginare tutto questo?
Vedi quel gabbiano?
Ascolta il suo canto.
Canta alla luna che tra poco sorgerà, alla brezza che lo sostiene e lo porterà lontano. Canta a quel pesce, quello che nuota appena sotto la superficie dell’acqua, la preda che lo sfamerà.
Canta alla tempesta, quella che arriverà all’alba, e che con i suoi venti spazzerà la spiaggia, farà impazzire l’oceano, soffierà tra le fessure di questa vecchia casa e mio Dio… sarà bello allora stringersi al riparo delle nostre calde coperte amore mio.

domenica 8 dicembre 2013

Occhi di bragia.


La porta cederà presto.
I colpi si susseguono. Sa che sono qui dentro, mi vuole.
Quando? Quando è cominciato questo incubo?

Ieri sera. Si, ieri sera. La spiaggia, il fuoco, la carne sulla griglia, il grande cielo stellato. Paola era bellissima. La pelle color ambra, gli occhi grandi e azzurri, mi ci sono perso in quegli occhi, fin dal primo giorno. Avevamo fatto il bagno e teneva la salvietta legata alla vita, come un pareo. Mi guardava, sorrideva.
Intorno a noi, altri ragazzi, amici suoi. Un gruppetto, non ricordo, forse otto, si, otto. Ragazzi e ragazze, ridevano e scherzavano intorno al fuoco, alcuni ballavano al suono della vecchia radio a batterie. Un paio si erano defilati nella boscaglia dietro la spiaggia. Dai bungalows del villaggio giungevano musica e risa, altri falò, altri ragazzi.

Sembra tutto così lontano, ora, con quella cosa, che picchia. Maledetta, maledetta!

Io e Paola ci tenevamo un po’ discosti dal gruppo, forse per questo riuscimmo a sopravvivere al primo assalto.
Dalla boscaglia, veloce, silenzioso.
Una furia cieca, possente, con gli artigli fendeva l’aria e le carni, con le mascelle stritolava le ossa.
Impietriti, mano nella mano come due amanti al chiaro di Luna, guardavamo l’animale informe fare a pezzi i nostri amici, sotto quello splendido cielo stellato.
Non ci vide.
Fermo sulle carcasse delle sue vittime girava la testa verso il villaggio dal quale i suoni della festa giungevano, e, com’era venuto, spariva per riprendere la caccia. Pochi secondi.
Pochi secondi per porre fine alla vita in quel lembo del Messico.
Nel frattempo noi rimanevamo immobili. Gli occhi fissi sui cadaveri poco distanti. La brezza leggera che si infilava tra le fronde delle palme alle nostre spalle.
Uno dei ragazzi, credo fosse Pietro, era caduto sul braciere e l’odore delle sue carni arrostite, a tratti, ci raggiungeva. La musica era cessata, il silenzio dominava su tutto. Solo la risacca riempiva il grande vuoto lasciato dalla natura fuggita anch’essa terrorizzata.
Dal villaggio giungevano echi di suoni terribili, la bestia terminava il fiero pasto.
Mi ricordai allora della capanna del vecchio eremita, doveva essere ancora in piedi. Un chilometro, forse due. Costrinsi Paola ad alzarsi, le gambe tremavano e lo sforzo per compiere i primi passi fu estenuante. La trascinai sul bagnasciuga e ci dirigemmo verso il rifugio, che forse ci avrebbe permesso di sopravvivere fino all’alba. Speravo, che con l’arrivo del giorno la creatura se ne sarebbe andata.
Man mano il passo si faceva più sicuro, non dovevo più trascinare la ragazza, mi seguiva silenziosa. La fiducia si faceva strada nei nostri cuori e le forze cominciavano a tornare. Il cielo ad oriente si faceva più chiaro.
Il Sole. L’alba. La salvezza.

La porta sussulta, geme. I colpi non cessano, anzi sembrano sempre più forti. La rabbia, l’odio di quella bestia, cosa può aver generato una creatura simile?


Credo fossero le cinque del mattino, quando dietro alla curva della spiaggia scorgemmo la capanna. Sembrava in buono stato. Distava un centinaio di metri. Alla nostra sinistra il mare, a destra il bosco e fu proprio dagli alberi che uno strano rumore aveva attirato la mia attenzione. Fin dal momento dell’attacco nessun suono, né verso di animale ci avevano raggiunto e quello scricchiolio aveva gelato il sangue nelle mie vene. Paola non sembrava aver sentito nulla. La capanna si avvicinava troppo lentamente. Le diedi uno strattone e cominciammo a correre. Veloce, veloce, sempre più in fretta. Alle nostre spalle qualcosa saltò fuori dalla boscaglia. Non avevo il coraggio di guardare. Ci seguiva. Ci raggiungeva. Mano nella mano correvamo a più non posso, decisi a farci scoppiare i polmoni, la creatura dietro di noi, folle, rabbiosa.
 
Tutto è successo un attimo fa.


Ecco la capanna. La porta. Entro. Paola non c’è, la sua mano non è più nella mia, l’ho persa.

L’ho persa.


Sprango la porta davanti ad una spiaggia deserta. Il sole all’orizzonte, il cielo azzurro, il mare cristallino, la brezza leggera e fresca, 

l’ho persa.

Quella stessa porta giace ora ai miei piedi. La creatura mi fissa, sagoma scura, occhi di bragia. Un ringhio feroce, le zanne scoperte.


La paura è passata.